giovedì 24 agosto 2017

martedì 21 marzo 2017

Due o tre cose che (non) so sull'amore


Diciamoci la verità. Invecchiare fa schifo, la forbice che si restringe sempre di più è qualcosa che annichilisce, il tempo che passa inesorabile sgomenta, perché capisci che si avvicina quatto quatto il momento della resa dei conti. Eppure, avere cinquant’anni, ovvero essere al giro di boa della propria esistenza, ha anche qualche lato positivo. Poca roba, ma c’è. Io, per esempio, credo di capire un po’ meglio la natura umana, prendo certe cose con più filosofia e affronto le mie paure con più determinazione di quanta ne avessi da giovane. 
La mia fortuna è che non mi sono mai posta i grandi quesiti esistenziali, quali per esempio: “Dio esiste?”. “Cosa ci faccio sulla Terra?”. “Qual è il mio scopo nella vita?”. “Perché Paola Perego fa la conduttrice su RAI1?”.
Non ci sono risposte soddisfacenti a queste domande. Se credessi in un dio qualsiasi, o a un’entità superiore, mi ci affiderei serena, sapendo che prima o poi scoprirò la verità. Ma sono una miscredente, mi baso sull’esperienza e penso che il destino non esista. Probabilmente tutto è dovuto al caso. O alle botte di culo, se vogliamo vederla in termini più filosofici. C’è solo una cosa alla quale credo, però. Alla capacità di amare dell’essere umano. L’amore è il vero mistero della vita. Da dove nasce? Come scaturisce? Qual è la causa di questo sentimento? Perché lui o lei invece di un altro o di un'altra? Non c’è scienziato o religioso che possa dare spiegazioni univoche su cosa sia l’amore. Eppure, alla fine, è l’unica cosa che realmente conta. Tutto quello che desideriamo avere. Il resto è il contorno che ci consola dal non amare o dal non essere amati.
Nonostante l’età, non è che ci abbia capito un granché sull’amore, ma provo a dare un mio piccolo contributo.

Innamorarsi è una delle poche cose della vita che noi non possiamo decidere. Possiamo scegliere cosa indossare, cosa mangiare, dove andare in vacanza, che lavoro fare. Ma non possiamo scegliere chi amare. Succede e basta.

Innamorarsi è qualcosa di tremendo e sublime allo stesso tempo, perché l’oggetto del tuo amore diventa la chiave che apre la porta alla felicità o all’infelicità. O a entrambe le cose contemporaneamente.

Le ragioni del cuore non seguono la logica o tutte quelle altre cianfrusaglie moralistiche che ci vengono insegnate. L'amore va dove cavolo pare a lui.

Non esiste la persona giusta o sbagliata di cui innamorarsi. Non esistono motivazioni giuste o sbagliate per innamorarsi. Non esistono motivazioni e basta.

L’amore dev’essere trattato come un malato grave, va curato, seguito costantemente, monitorato, ha momenti di assestamento e ricadute, non può essere lasciato solo neanche un minuto, altrimenti si spegne lentamente.

Il matrimonio o la convivenza non garantiscono la solidità dell’amore, anzi, in genere ne diventano la tomba, perché vengono a mancare i requisiti per mantenere accesa la fiamma. Ovvero la distanza, la mancanza, l’assenza, l’ansia, l’insicurezza e il desiderio di stare insieme. Se sai già che a ogni fine giornata vedrai quella tale persona, più che la fiamma si accenderà il lumino dei morti.

L’amore a volte è illusorio, è come una promessa non mantenuta, ti sembra di afferrarlo ma si dilegua appena lo tocchi.

L’amore eterno non esiste perché non si vive in eterno.

L'amore è egoista e se ne sbatte delle conseguenze.

L’amore non corrisposto non è vero amore, perché si nutre solo di fantasie che non si tradurranno mai in realtà.

L’amore non può essere associato all’abitudine. Le esigenze cambiano, noi cambiamo, e se la persona al nostro fianco non vede queste trasformazioni e dà per scontato il nostro sentimento, inevitabilmente non farà altro che allontanarci sempre di più.

Quando l’amore dell’altro si esaurisce, assistiamo impotenti e distrutti alla sua fine, ma non possiamo fargliene una colpa. L’amore non si può imporre, non possiamo tenere legate a noi persone che non ci amano più. Oltre che umiliante, è controproducente per la propria vita.

Le minestre riscaldate sanno di rancido.

Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’assenza d’amore.

L’amore spazza via ogni certezza e ogni luogo comune. Tutte le convinzioni se ne vanno a farsi friggere, comprese le cose scritte sopra.

mercoledì 8 marzo 2017

8 Marzo. In difesa della donna ma non delle donne


Sarà politicamente scorretto affermarlo proprio oggi, ma le donne non si amano tra loro.
Non voglio fare un discorso sui diritti e le pari opportunità, che all’alba del 2017 dovrebbero essere elementi acquisiti da una società civile degna di questo nome.
Parlo di un atteggiamento atavico proprio del carattere femminile. Che è quello di vedere “l’altra” come una nemica, una rivale.
Ci lamentiamo – giustamente – dello sfruttamento dell’immagine femminile come veicolo di una comunicazione becera, ignorante, maschilista, in cui tette e culi vengono utilizzati per pubblicizzare qualsiasi tipo di prodotto; veniamo descritte o come angeli del focolare, felici di lavare il cesso con il nuovo detersivo al profumo di mare in tempesta, oppure come top manager sicure, determinate, strafighe, ricche e dalla vita perfetta. Gli uomini dei mass media fanno finta di non sapere che noi siamo ben altro, con le nostre vite complicate, i nostri lavori precari, i soldi che non bastano mai, le famiglie che teniamo in piedi con lo scotch, le nostre ansie e le nostre piccole gioie.
A parole ci indigniamo per il trattamento che ci viene riservato. “Dobbiamo essere libere di mostrare il nostro corpo così com’è!”. “Possiamo vestirci come ci pare!”. “Non dobbiamo essere giudicate per il nostro aspetto!”. “I mezzi di comunicazione trasmettono un’immagine distorta della femminilità!”, e via sloganando.
E invece. Siamo le prime che, quando vediamo in giro una taglia 48 con indosso un paio di leggins, pensiamo: non si vergogna a mostrare quelle cosce cellulitiche?
Analizziamo le nostre “sorelle” centimetro per centimetro in cerca di un difetto, di una falla, di un qualcosa che ci faccia sentire più fighe, paragonate a loro. “Beh, io non sarò magrissima, ma quella è proprio anoressica. Gli uomini amano un po’ di ciccia”. “Tizia è alta, vero, ma ha il culo piatto come il Tavoliere delle Puglie”. “Se non ha le braccia toniche, perché Caia si mette il top? Un po’ di ritegno, no?”
Anche tra amiche succede. Anzi, soprattutto tra amiche. Ci si vuole bene, si è solidali l’una con l’altra a livello umano, ma poi è più forte di noi il bisogno di criticare, spettegolare, parlar male appena possibile. Con affetto, naturalmente. Ma intanto la frecciatina è partita e magari ha colpito il segno.
Non dovremmo, ma siamo proprio noi le prime a guardare l’aspetto fisico delle altre. Siamo noi che rimaniamo inorridite dalle pecche altrui. Dal trucco, dai capelli, dal peso, dall’abbigliamento. È una caratteristica innata che probabilmente deriva dal nostro continuo bisogno di conferme, certezze, adulazione, complimenti e riscontri da parte dell’uomo. Siamo insicure perché ci hanno sempre fatto credere che per conquistare un maschio e tenercelo stretto bisognasse puntare tutto sull’aspetto fisico. E in parte è vero. La bellezza conta, eccome. Nella misura in cui è apprezzata dagli uomini, perché se non esistessero loro, che cosa ci fregherebbe di essere gnocche o meno?
Fino a non tanti anni fa, le capacità intellettive delle donne, non solo erano considerate un optional, ma persino una iattura. È da poco, da dopo la rivoluzione femminista, che la società nel suo insieme sta cercando faticosamente di cambiare mentalità. Non è un processo facile. Non è un processo veloce. Ci vorranno chissà quanti altri decenni per fare un salto in avanti da questo punto di vista. Certo, non abbiamo aiuti in questo senso. Finché saremo trattate come pezzi di carne decerebrate, faremo fatica a liberarci anche noi da questi condizionamenti. Per riuscirci dovremmo partire dal piccolo. Essere più indulgenti in primis verso noi stesse. Guardarci allo specchio e non notare solo i difetti, bensì quello che c’è oltre. Vederci con i nostri occhi, non con gli occhi degli altri, soprattutto quelli maschili. Dirci che siamo belle, anche se non lo siamo. Dirci che siamo simpatiche, carine, divertenti, forti, che chissenefrega della buccia d’arancia, chissenefrega se abbiamo una ruga o qualche chilo in più. Noi siamo quello che pensiamo di essere. Se crediamo che conti solo l’aspetto fisico, non saremo mai davvero libere. Prima di tutto siamo individui, persone, con le nostre fragilità e debolezze, e su quello dovremmo concentrarci.   
A volte, siamo proprio noi le nostre peggiori nemiche.

P.S. Ma gli uomini, se li faranno mai questi discorsi?

venerdì 3 marzo 2017

L'amore al tempo dei social


L’amore non è più un fatto privato, di coppia.
Si è trasformato in una specie di ammucchiata social nella quale vengono coinvolti follower, amici, parenti e sconosciuti. Non si fa in tempo ad aprire Facebook, Instagram e Twitter, che subito si viene investiti da video e foto di momenti che dovrebbero essere intimi e personali, gettati in pasto al pubblico per far vedere quanto si è felici e innamorati. Ma è realmente così?
Il punto è che tutto ciò che facciamo e pensiamo, ormai, viene condiviso con chiunque. Non esiste più il pudore dei sentimenti e dei ricordi amorosi, che dovrebbero essere custoditi discretamente e non sparsi ai quattro venti. Anche perché, scaramanticamente parlando, è sempre meglio non sbandierare il proprio idillio, pena fare figure di merda catastrofiche se tutto dovesse finire.
Persino sulla carta d’identità non è più obbligatorio mettere il proprio stato civile; perché dunque su FB bisogna scrivere se si è accoppiati, single o se si vive una relazione complicata? La cosa dovrebbe riguardare soltanto le parti interessate, non essere di dominio pubblico.   
Siamo smaniosi di condividere ogni momento della nostra vita, anche quella affettiva, perché in qualche modo il semplice fatto di postare foto e video dove per un attimo siamo stati felici, ci fa sentire protagonisti, soddisfa il desiderio di attirare l’attenzione e di nutrire il nostro ego bistrattato dalle frustrazioni quotidiane. In pratica, far parte di una comunità di sconosciuti ci fa sentire meno soli. Ma è solo un’illusione, perché più mettiamo in mostra i nostri sentimenti, più questi perdono di valore e vengono massificati, uniformati, banalizzati. Per non parlare del rischio di renderci ridicoli.
Non esistono più tabù. Abbiamo sdoganato di tutto, persino le immagini dei morti non ci impressionano più di quel tanto. Sarebbe bello se almeno l’amore rimanesse un’emozione da vivere nella sfera privata.   

lunedì 27 febbraio 2017

La Mammafia


Per fortuna sono uscita dal tunnel, ma ancora le vedo in giro.
Le Mamme.
Le Mamme diverse da me fanno parte della Mammafia. Parlano solo di figli. Di scuola. Degli impegni extrascolastici. Delle festicciole che organizzano ogni settimana, perché ogni settimana c’è un cazzo di compleanno di qualche bambino. Delle maestre che danno troppi compiti. O pochi compiti. Del compagno extracomunitario che, poverino, vivrà pure in una famiglia disagiata, però disturba in classe. Dei corsi di inglese, dei corsi di danza, dei corsi di arti varie. Perché un bambino non può rimanere in casa ad annoiarsi per un pomeriggio, non sia mai. Della tata filippina che ha comprato la focaccina al bambino intollerante al glutine e dev’essere licenziata.

Si ritrovano al mattino dopo aver accompagnato i figli a scuola. Le vedi al bar per ore a farsi il caffettino, poi corrono in palestra dove le attendono le lezioni di pilates o di yoga. Perché sono tanto stressate, poverine. Naturalmente, hanno già dato disposizioni alla colf per il pranzo e la cena, perché loro non hanno tempo. Al pomeriggio, prima di riprendersi i figli, si ritrovano di nuovo al bar e si raccontano le tante amenità della loro giornata. Raccattati i pargoli, li riportano ai suddetti bar per la merendina. Mai fare l’errore di concedersi una pausa caffè dal lavoro alle 16.30; perché ti ritrovi circondata da orde di bambini urlanti, passeggini con i figli più piccoli che piangono disperatamente e madri che chiacchierano facendo finta di niente. Al massimo, le senti rimbrottare affettuosamente i demonietti con un “Luchino, non spaccare la spada laser in testa alla signora… Federico, smettila di rotolarti per terra che dai fastidio… Mi scusi sa, ma sono bambini…”. No cara Mamma. Non sono bambini. Sono incarnazioni di Satana o, nella migliore delle ipotesi, maleducati all’ennesima potenza. Io non sono per la violenza fisica, ma se invece del buffettino tirassi due schiaffoni sul culo all’esorcista, vedresti che – magari – la prossima volta si comporta meglio. 

Ma queste sono quisquilie. Avete mai dovuto sopportare i gruppi whatsapp delle Madri? No? Allora non potete capire cosa sia l’inferno in terra. Centinaia e centinaia di messaggi giornalieri per sapere se la prof di latino ha detto di studiare la pagina 21 o 22. Se qualcuno ha trovato nella cartella del figlio il maglioncino di Gianbattista (non apro una cartella, la mia, dal 1984). Se i ragazzi alla gita devono portare i panini o se si arrangiano loro. Se qualcuno sa chi ha rubato la matita azzurra a Gaia, perché se il colpevole non viene fuori ci saranno ritorsioni.

E poi, il peggio. Gli auguri. A Natale è l’apoteosi. Video interminabili con Bambinelli nella mangiatoia, Re Magi, Babbi Natale, stelline danzanti, renne volanti e relative musichette elettroniche in sottofondo.
Non puoi toglierti dal gruppo, perché se per caso arriva un messaggio davvero importante dalle rappresentanti di classe, sei fottuta. E allora ti rassegni. L’unica è silenziare i messaggi e leggerli quando hai finito di lavorare, ma poi te ne ritrovi milleduecento e non sai se suicidarti o passare per una madre di merda che si disinteressa dei figli.
Io ho scelto la seconda opzione.

Bisogna rompere il muro d’omertà e denunciare. Anche se la Mammafia ha già vinto.

mercoledì 17 febbraio 2016

Nero come l'ebano


       - Perché l’ha fatto, De Marchi? Quale impulso l’ha spinta?
       - È difficile risponderle, ispettore; a dire il vero non immaginavo che le cose sarebbero andate in quel modo. Se mi permette di spiegarle, le dirò tutto quello che è successo, fin dall’inizio.
L’ispettore Berardi si lasciò cadere con un tonfo sulla sedia sgangherata dietro la scrivania, ancora ingombra dei documenti risalenti all’epoca Coppola, il suo predecessore, l’uomo a capo della squadra investigativa per undici lunghi anni. Una volta andato in pensione, la direzione era passata sotto il suo comando. Riuscirò mai a liberarmi di queste maledette scartoffie?, pensò con irritazione.
Giuliano si accese una sigaretta. A Berardi non piaceva che si fumasse nel suo ufficio, ma non voleva rovinare il clima di fragile intimità che si era creato tra lui e il giovane erede della famiglia De Marchi. Anche se non voleva ammetterlo, l’ispettore desiderava capire fino in fondo che cosa l’avesse spinto a compiere quel gesto di inutile violenza, in apparenza inconsueto per quel genere di individuo. Così, si predispose all’ascolto e, con un cenno del capo, gli fece capire che stava aspettando il suo racconto.

         - Vede, ispettore, quel giorno mi ero svegliato di buonumore. Mi ero fatto una doccia, avevo messo il completo che indosso di solito per andare al club e avevo preparato la borsa per giocare a tennis. Avevo appuntamento con il mio amico Filippo Reali, che mi aspettava al circolo con due ragazze. Una di loro era l’ultima fiamma di Filippo, Wendy, un’americana di Cincinnati. L’altra, l’avevo intravista il giorno prima, al circolo; dopo essermi informato con discrezione, avevo scoperto che era un’amica di Wendy. In seguito a varie insistenze, l’avevo convinta a presentarmela. Avevamo combinato l’incontro, e io ero molto eccitato all’idea di conoscerla. Mi creda, ispettore, era una visione. Mora, i capelli lunghi così lisci e lucidi da sembrare ebano; occhi neri, all’orientale, carnagione ambrata e una bocca per cui avrei potuto uccidere. Non mi fraintenda, però; non è certo quello il motivo che mi ha spinto a farlo.

         Mentre Giuliano raccontava la sua versione, l’ispettore Berardi tratteneva a stento l’impazienza. Cosa poteva importare a lui dei lucidi capelli neri o della bocca sensuale della ragazza? Provando uno spontaneo livore nei confronti del ragazzo, pensò che non c’erano valide giustificazioni o motivi plausibili per ciò che aveva fatto. Tuttavia, si concentrò sulle sue parole per non interromperne il flusso; sapeva bene che quando un indiziato comincia a parlare, niente riesce più a fermarlo. Bisogna soltanto aspettare che la storia giunga al termine, per poi estrapolare le parole chiave dal groviglio informe della confessione e decodificarla. Un po’ come tradurre una nuova lingua a ogni interrogatorio. E lui aveva trovato da tempo la sua stele di Rosetta.

         Giuliano continuò: 
        - Stavo per uscire dalla villa quando sentii squillare il telefono. Al momento non ci feci troppo caso; di solito risponde Maria, la cameriera. Ma dato che continuava a suonare, risposi io. Era Filippo, preoccupato al pensiero di non trovarmi più in casa. Mi disse che l’appuntamento era saltato a causa di un improvviso impegno dell’amica di Wendy. Sapevo che si chiamava Ambrosia, come il cibo degli dèi. Non le nego, ispettore, che quel nome mi faceva immaginare i modi più diversi d’assaggiarla e assaporarla, proprio come un nettare. Perciò, quell’imprevisto mi aveva indispettito, ma aveva anche suscitato in me un desiderio ancora più forte di conoscerla. Sembrava che mi volesse sfuggire. Io, però, se mi fisso su una cosa non c’è verso di togliermela dalla testa, ispettore. Ecco perché decisi di rintracciare il suo numero di telefono. Volevo sorprenderla e farle capire che non mi sarei arreso facilmente.
         - Ed è per questo che sui tabulati della compagnia telefonica abbiamo trovato 12 chiamate al numero della signorina Ferri? E tutte nello stesso giorno dell’omicidio, poi?
         Ambrosia Ferri…, pensò tra sé e sé l’ispettore. Un nome dolce come il miele e un cognome duro come l’acciaio.
         - Non ha mai pensato che la ragazza si sarebbe infastidita per colpa del suo atteggiamento insistente?”
         - In quel momento non la vedevo così. Volevo solo sentire la sua voce e fissare un appuntamento. Desideravo incontrarla, ispettore. Più di qualsiasi altra cosa.
         - Come ha fatto a procurarsi il numero?
         - Wendy. Me l’ha dato lei. 
         - E poi, cosa avvenne? Come reagì Ambrosia alle sue telefonate?
         - Le prime quattro o cinque chiamate andarono a vuoto. Alla sesta, finalmente, rispose, ma aveva una voce assonnata, come se si fosse appena svegliata. Mi arrabbiai. Era per questo che aveva rinunciato all’appuntamento? Erano questi gli ‘impegni’ che le avevano impedito di incontrarmi al club? 
         - Dunque, era arrabbiato. E che cosa le disse? L’aggredì, le sbatté il telefono in faccia, o che altro?
         - Ispettore, non dimentichi che la ragazza praticamente non mi conosceva, se non di vista. Il nostro appuntamento era al buio; almeno per lei.
         - Continui, la prego.
         - Le ho già detto che rispose con una voce strascicata, assonnata, quasi rauca. Stavo per dirle chi fossi quando in sottofondo sentii un’altra voce. Maschile. Borbottava qualcosa, e io capii solo ‘mettilo giù e vieni qua’ o qualcosa del genere. A quel punto misi giù io.

         Giuliano chinò la testa e fissò il pavimento, le occhiaie nerastre messe ancora più in evidenza dal riflesso del neon sul suo volto. L’ispettore Berardi rimase zitto, aspettando che il ragazzo esprimesse i suoi stati d’animo dopo quella telefonata. Ma il silenzio si prolungò un po’ troppo a lungo.

         - Così, lei, frustrato e arrabbiato, come reagì? La richiamò sicuramente, perché si vede dai tabulati. Altre sei telefonate, di qualche minuto ciascuna. Che cosa fece? Quali erano i suoi pensieri in quel momento?

         Giuliano alzò la testa e lo fissò; gli occhi, prima spenti, ora sembravano possedere un bagliore oscuro, come se dal baratro della sua mente stesse emergendo qualcosa di folle e sinistro.
         - Volevo risentire la sua voce. Non quella di Ambrosia: l’altra. Mi sembrava di conoscerla, ma non ne ero certo. Così ho chiamato. E chiamato. E chiamato ancora. La mia mente aveva registrato la tonalità, il timbro, l’inflessione, il modo di parlare. Ma si rifiutava di darle un nome. Fino a quando non mi ha risposto lui in persona. Continuava a dire ‘pronto, pronto! Chi cazzo sei?’ e insultava, senza nemmeno sapere chi fosse all’ascolto. Non richiamai più. Fu l’ultima telefonata che feci.
         - Alla fine, riconobbe la voce? 

         Silenzio. E di nuovo quel bagliore cupo negli occhi.
         - Era Filippo.

         A quel punto anche Berardi ammutolì.
         E fu allora che comprese, e che la stele di Rosetta cominciò a fare il suo lavoro di traduzione. Nella sua mente si materializzò lo scenario. Ricostruì i fatti. Visualizzò la stanza dove era stato commesso il delitto, la porta che si apriva, la cameriera che urlava e Giuliano, con lo sguardo vuoto, che non capiva perché ci fosse tutto quel trambusto. E poi, l’arrivo della polizia, il sopralluogo, il medico legale, l’analisi della scena del crimine.

         - Che cosa ha fatto dopo l’ultima telefonata? - gli chiese Berardi.
         - Mi sono seduto. Ho aspettato che mi venisse un’idea. Volevo ammazzarlo, ma non sapevo come. Poi ho preso dei fogli dal cassetto della scrivania. Li ho piegati e ripiegati; ne ho fatto una piccola scultura di carta: un cigno. Sa come si chiama quest’arte? Origami. Quando non so cosa fare, mi rilasso così. E io in quel momento non sapevo davvero come comportarmi. Nell’attesa che mi venisse un’ispirazione, l’ho ammazzato.
         - Già. L’ha ammazzato. E tutto per una donna che nemmeno conosceva. Ha una vaga idea di quello che ha fatto, perdio? 

         Berardi si accorse che stava alzando la voce. Giuliano lo guardò, con i suoi occhi scuri e vuoti.
         - Sì, ora me ne rendo conto. Ma non sapevo cosa fare. È per questo che ho ammazzato il tempo.

giovedì 28 gennaio 2016

Moglie o amante? L’arduo e profondo conflitto interiore degli uomini sposati


Fare la moglie è faticoso. È un compito impegnativo, spesso ingrato e poco considerato. Diciamo la verità: le donne pensano che il matrimonio sia un traguardo, mentre invece è al momento del tanto agognato "sì" che comincia la vera gara a ostacoli. Progressivamente, da esseri desiderabili, agli occhi degli uomini si trasformano in insopportabili rompicoglioni. O in donne sciatte e prevedibili come il rigore dato alla Juve la domenica. Come se dall’oggi al domani, lo status di consorti assumesse un valore negativo. Osservate un uomo quando parla della moglie: generalmente, lo sguardo si fa cupo, le spalle si incurvano verso il basso, come se portassero il peso del mondo, il tono della voce si fa rassegnato. Credo che nel 90% dei casi, i maschi sposati si considerino dei prigionieri politici, schiavi del tran tran quotidiano e della routine mascherata da vita stabile e tranquilla. Troppo tranquilla. Talmente tranquilla che a un certo punto si fa impellente l’esigenza di trovare qualcosa di adrenalinico che li faccia sentire ancora vivi. La “salvezza” del maschio arriva quando scopre il mondo delle chat. Lì, finalmente, trova la sua controparte al femminile. Donne sposate ingabbiate in un matrimonio fatto di piattume, cene silenziose e serate trascorse davanti alla TV; single allupate; separate alla disperata ricerca del principe azzurro o semplicemente di avventure che possono raccontare alle amiche affamate di gossip... In pratica, un catalogo aggiornato della reale condizione umana, fatta di solitudine e di noia. In chat, l’uomo si sbizzarrisce. Scrive a chiunque, nella speranza di ricevere un feedback. Per un calcolo statistico, su cento messaggi inviati sperano almeno in una decina di risposte. Man mano, avviene una selezione naturale, fino ad arrivare al bersaglio individuato. È lei quella giusta! Carina, sexy, simpatica, divertente, ride alle sue battute e si interessa incredibilmente alla sua vita. Alla fatidica domanda “sei single, sposato, separato, divorziato?”, la risposta automatica è: “sono sposato, ma infelicemente. Ormai siamo quasi dei separati in casa”. Se dopo questa esplosiva rivelazione la compagna di chat non sparisce, è praticamente fatta. Peccato che la povera (ma consenziente) malcapitata, sorvoli sulla parola fondamentale della frase: quel “quasi”, infatti, è la chiave di tutto. Perché il fedifrago in pectore non è MAI un separato in casa. Con la moglie fa esattamente le stesse cose che faceva prima, compreso del tiepido sesso che è sempre meglio di niente.
Comunque, da quel momento parte la solita trafila: scambio di numeri di telefono, contatti messenger e skype per vedere in anteprima la probabile futura amante (perché si sa che dalla foto al contatto visivo ce ne corre), e poi, finalmente, il primo appuntamento. Che può risultare un flop, ma di solito, dopo un minimo di conoscenza reciproca, porta difilato alla condizione di amanti clandestini. All’inizio è passione pura. La condizione di clandestinità, infatti, può risultare molto eccitante. I primi tempi. Poi, man mano che il tempo passa, per la povera amante tutto diventa difficile. Deve stare agli orari di lui. Adeguarsi agli impegni familiari di lui. Sorbirsi le lamentele di lui sulla moglie… La quale, all’inizio ignara, comincia inevitabilmente a sospettare. Soprattutto quando l’idiota lascia in giro scontrini, biglietti del cinema, orecchini sotto il sedile della macchina e le solite tracce che Freud definiva atti mancati. L’uomo di solito nega anche l’evidenza. Se messo alle strette, però, vive la confessione come una liberazione. Nel senso che lascia alla moglie la responsabilità di decidere della sua sorte. Di solito, lui ammette il tradimento, ma adducendo la prevedibile scusa cui non darebbe credito neanche un bambino di tre anni che crede ancora a Babbo Natale: è stata una sbandata, non è stato niente di importante, mi ha preso in un momento di debolezza, e via coglionando. A quel punto, alla moglie non resta che far finta di crederci. Perché non vuole mandare a monte un matrimonio per un’avventura. Solo che, pur perdonando il traditore, non riesce più a fidarsi di lui. Per cui comincia il martellamento pneumatico: chi è lei, come vi siete conosciuti, che cosa hai trovato in lei che non ti davo io (mmmh, vediamo… sesso sfrenato? Emozioni? Passione travolgente? Sintonia mentale? Perché vuoi sentirtelo dire, povera moglie? A volte è meglio non sapere). L’aspetto più patetico della situazione è che la consorte ufficiale cercherà con ogni mezzo di riportarlo sulla retta via, sperando di ritrovare la passione perduta. Che, appunto, è ormai perduta. Le minestre riscaldate non sono mai appetitose come un buon piatto di pasta al pomodoro con un pizzico di peperoncino. Alla fine, inevitabilmente, ogni tentativo risulterà vano. Lui avrà sempre quell’aria da “l’ho lasciata per te ma non sono felice, sappilo”. Il sospetto prenderà il sopravvento su tutto. Telefonini sotto controllo, verifiche di chilometraggi dell’auto, ricerca di residui organici sugli indumenti… Lui nel frattempo avrà momentaneamente chiuso la storia, in attesa che le acque si plachino, ma ci ricascherà quasi subito perché non ce la fa a resistere. Per qualche settimana farà il maritino modello, ma al primo messaggino con scritto “mi manchi”, ricomincerà a vederla, solo che lo farà con molta più circospezione. Stando molto più attento a non lasciare tracce. Queste storie clandestine possono durare mesi. Nella peggiore delle ipotesi, anni. Alla fine, tutte le parti in causa femminili perdono. La moglie, la cui convinzione di aver costruito una famiglia da Mulino Bianco si infrange davanti a un completino intimo sexy inutilmente indossato per rinverdire i fasti del passato e del quale lui a malapena si accorgerà (un po’ come quando noi donne andiamo dal parrucchiere e da more diventiamo biondo platino e lui non ci fa caso); e l’amante, che si era illusa di poter vivere di briciole di tempo rubato, quando in realtà le briciole ormai non se le cagano più nemmeno i passerotti affamati.
Morale? Gli uomini non lasciano mai le mogli. Le mogli lasciano raramente i mariti. Le amanti lasciano il tempo che trovano.